Grande Guerra sul Montello
“Chi per la patria muor, vissuto é assai”
Fu la generazione dei Ventenni a ridare alle Armi Italiane l’energia e l’impulso che Caporetto pareva aver spento e che le condurrà alla vittoria finale
Il 21 febbraio 1826, alla Fenice di Venezia, va in scena per la prima volta il “melodramma serio” Caritea, regina di Spagna, ossia La morte di Don Alfonso re di Portogallo di un compositore forse ben conosciuto dai musicofili, ma oggettivamente meno noto al grande pubblico, Saverio Mercadante; nella nona scena del primo atto, il coro intona un’aria che contiene versi potentemente evocativi (“Chi per la patria muor, vissuto è assai; la fronda dell’allor non langue mai. Più tosto che languir per lunghi affanni, è meglio di morir sul fior degli anni”), che diverranno una vera e propria icona del Risorgimento Italiano, dopo che i patrioti mazziniani Attilio ed Emilio Bandiera li canteranno poco prima di essere fucilati dai soldati borbonici, il 25 luglio 1844.
Questi versi contengono il germe di un’ideale, di una convinzione che ha accompagnato l’umanità fin dall’antichità, quando Omero ne fa il principio guida dell’eroe greco Achille: meglio vivere una vita breve ma gloriosa, che una vita lunga ma oscura.
L’aspirazione a cogliere la gloria, anche a costo della vita o forse a maggior ragione se raggiungerla costa la vita, da sempre ha connotato e connota il comportamento di una moltitudine di giovani impegnati sui campi di battaglia.
Durante il nostro Risorgimento, per moltissimi giovani quest’ideale si accompagnava all’amor di patria, del quale era divenuto il naturale corollario: amare la Patria significava sacrificarle tutto, così ammantando di gloria anche una fine prematura.
Come abbiamo già avuto modo di osservare in precedenza, a noi contemporanei riesce davvero difficile capire e giustificare simili sacrifici; è ovvio infatti, piaccia o non piaccia, che il concetto di patria è morto decenni addietro e lo stato oggi è solo un oscuro e distante Moloch che ci soffoca di tasse e di burocrazia, senza darci nulla in cambio.
Invece nel 1918, lo Stato, meglio, la Patria, era un concetto nobile ed elevato, per moltissimi Ragazzi di vent’anni, i quali, volontari e non, trovarono del tutto naturale immolarsi in trincee fangose per respingere definitivamente il “secolare nemico”.
Questi giovani soldati erano la nuova linfa che aveva iniziato a scorrere nelle vene esangui del Regio Esercito Italiano, abbattuto e depresso dopo la tragedia di Caporetto, al quale avrebbero ridonato quello slancio e quella voglia di vittoria che sembravano perduti.
Durante la grande Battaglia del Solstizio, innumerevoli Ventenni Italiani, a dispetto della giovane età e dell’addestramento approssimativo, misero in campo una tenacia incrollabile e uno spirito di sacrificio quale forse la Storia d’Italia non ha mai più visto da allora.
Come dovunque lungo il Piave, sugli Altipiani e sul Massiccio del Grappa, anche sul Montello questi giovani uomini diedero magnifica prova di sé e sparsero con dovizia il loro sangue lungo tutta la Collina.
La Grande Battaglia del Solstizio – Il Ricordo
Oggi ne vogliamo ricordare tre, le cui storie sono assolutamente simili, perché raccontano di vite immolate esattamente allo stesso modo, nel fragore della battaglia e scegliendo consapevolmente di adempiere al proprio dovere, piuttosto che di salvare sé stessi.
Il 19 giugno 1918 è il giorno della controffensiva generale italiana sul Montello, la quale, come abbiamo ricordato in un articolo precedente, fallì, a causa dell’approssimazione e della fretta con la quale era stata decisa.
Tra i tanti combattenti impegnati nelle operazioni di attacco, ci furono anche tre tenenti ventenni di fanteria, UMBERTO SACCO, nato ad Alba nel 1898, aiutante in seconda del 74° Reggimento Fanteria; MAURILIO BOSSI, nato a Saronno nel 1897, Comandante della 3^ Compagnia del I° Battaglione del 68° Reggimento della Brigata Palermo; EMILIO BONGIOANNI, nato a Torino nel 1898, Comandante del primo Plotone della 1^ Compagnia del I° Battaglione del 96° Reggimento della Brigata Udine.
Umberto, Maurilio ed Emilio caddero tutti e tre in combattimento il 19 giugno, in zone diverse del Montello, mentre conducevano i loro soldati all’assalto.
Tutti e tre non si “limitarono” a stramazzare a terra, fulminati dalla famosa pallottola solo a loro destinata: dalla motivazione delle rispettive Medaglie d’oro al Valor Militare, apprendiamo che dapprima furono tutti e tre feriti, ma non si diedero il benché minimo pensiero di abbandonare il loro posto e rimasero esposti, alla testa delle truppe, finché il loro destino non si compì, consacrandoli a quella gloria imperitura che essi avevano, consapevolmente o no, cercato e trovato.
L’abnegazione e il coraggio estremo, con i quali la generazione dei Ventenni si spese in quell’inizio d’estate del 1918, furono indiscutibilmente il viatico per la successiva Vittoria e furono anche il seme dal quale crebbe un’altra vigorosa e leggendaria leva di soldati, quella dei Ragazzi del Novantanove, ma come si suol dire, questa è un’altra storia.