Elena Capece Intervista
Marca Aperta oggi intervista Cinzia Capece, antropologa culturale.
1. Chi è Cinzia Capece?
Sono sempre stata una “filosofa” della vita. Dovendo affrontare molte vicissitudini, alcune non proprio gradevoli, mi sono posta una domanda: “Posso essere io stessa la fonte della mia felicità interiore?” Chiaramente la risposta non è delle più immediate, ed essere semplicemente il proprio punto fermo, durante la tempesta, richiede una certa multiformità, ma, la stessa pura ferma volontà di non perdersi in ”uno nessuno e centomila”, per quello, ci sono già gli altri.
2. Di che cosa si occupa un’antropologa culturale?
Sono un’antropologa culturale, e preferirei non rispondere a questa domanda, in quanto l’antropologia è nota dai tempi in cui è nata come studio dei “gruppi umani”, ma le sue applicazioni, che sia criminale, che sia forense che sia applicata all’arte o alla medicina o in ambienti economici, non permette mai di fermarsi a un mero “studio etnografico del gruppo umano“ preso in considerazione in quel momento. Si deve andare oltre alle definizioni da manuale. È così che ritengo opportuno fare antropologia, essere l’antropologa culturale applicata a diversi campi di studio, perché la mia sete e voglia di sapere non mi permette di fermarmi a una delle nicchie antropologiche. Amo le diversità. “Il variegato”. E’ un gelato variegato, ecco mettiamola così per i “profani”.
3. Quali sono i visitatori museali e cosa cercano?
Siamo tutti noi quando andiamo a visitare o un museo o una galleria. Sono persone che non hanno il desiderio di fermarsi solo alla quotidianità. Ecco che l’antropologo, lo statista, e il sondaggista può studiare il target di alcuni visitatori o le reazioni di fronte a qualche opera contemporanea o storica; io mi soffermerei di più sul fatto che a volte si è quello che ci è dato essere. Non sono quelli che camminano scalzi nel deserto perché non hanno musei da visitare, ma, potrebbero essere visitatori di musei anche quelli.
4. La comunicazione nell’arte e l’arte di comunicare.
Comunicare non è mai semplice, c’è un’interiorità in ognuno di noi. Chi parla poco non è necessariamente che abbia poco da dire, chi parla molto, magari non dice nulla né di nuovo né di vecchio. Il giusto mezzo è da trovare spesso sia nel poco sia nel molto. Credo che comunicare artisticamente debba sfondare delle barriere, quelle soprattutto dei pregiudizi e creare nuove forme di realtà.
5. Fotografia: cosa esprime?
Quando fotografo, cerco di riprendere tutto da “un’altra prospettiva”.
Esprime una sorta di desiderio di cambiare il mondo, ma, siccome per cambiarlo, servirebbero serie di vite in più, non so se cambierà mai davvero questo mondo, allora mi dedico a fotografare il meglio di quello che posso. Se c’è qualcosa o qualcuno la osservo con interesse e mentre “scatto o prendo” la foto è questo interesse che ho per le cose e le persone che cerco di riproporre sullo scatto.
6. Dove raccogli l’ispirazione nelle tue opere artistiche?
Credo che il concetto di “ispirazione” sia un concetto molto abusato. Non serve l’ispirazione, non è una cosa a sé stante, abbiamo tutti un’anima e siamo nati ispirati; forse si confonde il concetto di “voglia di fare e produrre” con la famigerata “ispirazione”. Credo semplicemente si tratti di stanchezza o meno quando non si sente l’afflato creativo, ma che ci sia sempre dentro.
7. Immagini e suoni: quali sono i più potenti?
Dipende dalla persona che vede le immagini e che ascolta i suoni. Credo che scientificamente abbiano dimostrato il forte potere di suggestione di entrambi. Dipende sia dal fruitore che dal creatore cosa si intende usare di più. Il creatore per la sua indole, il fruitore per trarre giovamento. Sono scelte non sono mezzi da scegliere.
Foto di Graziano Arici.