Nell’agosto di novantotto anni fa, cadeva in combattimento Enrico Toti, volontario di guerra tra i Bersaglieri ciclisti e Medaglia d’Oro al Valor Militare: egli cadde da eroe e certamente meritò di diventare quel che è, uno dei simboli della nostra Grande Guerra, ma la sua esperienza di combattente non è che l’atto finale, il naturale coronamento di una vita da romanzo, che val la pena di raccontare.
Enrico Toti nasce a Roma il 20 agosto 1882, nel quartiere San Giovanni.
Suo padre, Nicola, è un ferroviere e sua madre, Semira, una casalinga; chiaro, dunque, come, sul finire del 1800, le condizioni economiche di una famiglia quale la sua non possano certo permettere a Enrico di studiare…
Per cui, alle soglie dell’adolescenza, ecco la prima decisione “singolare”: a quindici anni, Toti si imbarca come mozzo sull’Ettore Fieramosca, nave scuola della Regia Marina – antesignana dell’attuale e conosciutissima Amerigo Vespucci – per poi passare ad una nave da battaglia, la corazzata Emanuele Filiberto e, da ultimo, all’incrociatore Coatit.
Durante il servizio in marina, nel 1904, vive la sua prima esperienza di combattimento – sia pure all “acqua di rose”, se paragonata a ciò che vivrà due lustri dopo, nelle trincee del Carso – allorché la squadra della quale l’incrociatore Coatit fa parte riceve il compito di contrastare le bande di pirati che infestano le coste delle colonie italiane dell’Africa Occidentale (piaga evidentemente mai guarita, come ricordano le cronache recenti…).
L’anno dopo, congedatosi, decide di seguire le orme del padre e viene assunto dalle Regie Ferrovie, dove prende servizio come fuochista.
L’incidente che ne segnerà la vita
Nel 1908, incappa in un drammatico incidente sul lavoro, che ne segnerà la vita, nel bene e nel male: durante una fase di manovra, scivola sui binari e finisce con la gamba sinistra stritolata da una sopraggiungente locomotiva.
L’arto, irreparabilmente offeso, gli viene amputato all’altezza del bacino, così da precludere totalmente l’uso di qualsiasi protesi.
A quel punto, è come se dal profondo del suo animo inizino ad erompere energie fino a quel momento sopite, infondendogli la ferrea volontà di non piegarsi alla sorte, ma, al contrario, di sottometterla ai suoi desideri.
Enrico decide che la menomazione non potrà mai fermarlo e intende dimostrarlo.
Enrico Toti ed il tour europeo in bicicletta
Nel 1911, in un’epoca pionieristica per le due ruote, inforca la bicicletta e, pedalando con l’unica gamba rimastagli, si lancia in un avventuroso tour europeo, che lo porterà dapprima a raggiungere Parigi, poi ad attraversare Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Finlandia, Russia e Polonia, per tornare in Italia nel 1912.
Non pago di quella che già di per sé ha tutti i connotati di un’impresa incredibile, tenuto conto dei mezzi di allora e della totale mancanza di qualsivoglia assistenza, nel gennaio del 1913, attraversa il Mediterraneo in nave per poi buttarsi con il suo cavallo d’acciaio – è bene ricordare che le biciclette di allora non conoscevano alluminio, carbonio e quant’altro… – lungo le piste del deserto, fino al confine con il Sudan, dove le autorità inglesi, preoccupate per la sua incolumità lo obbligano a tornare indietro e reimbarcarsi alla volta dell’Italia.
L’arruolamento
Alla notizia della dichiarazione di guerra, si precipita ad arruolarsi volontariamente, ma, dato che la domanda gli viene respinta per ovvi motivi, ci riprova con lo stesso esito, altre due volte.
Tutto questo non basta a smuoverlo dai suoi propositi.
Ancora una volta, Enrico monta in sella alla sua amata bicicletta – ormai, senza alcuna ironia, letteralmente una parte di lui – e pedala fino alle retrovie del fronte carsico, a Cervignano del Friuli, dove si va assai meno per il sottile e si considera utile qualsiasi uomo si presenti.
In questo modo, intanto, riesce a farsi arruolare come volontario civile, ovvero come “operaio militarizzato”; insieme a molti altri come lui, inabili al servizio attivo, compie un lavoro quotidiano, misconosciuto ma essenziale, di riparazione delle trincee, di approntamento dei materiali destinati agli uomini in linea e, in generale, di soddisfazione di tutte le esigenze logistiche di un esercito in zona di guerra.
Però, è inutile dire come il Nostro aneli al combattimento e non possa accontentarsi di un ruolo da retrovia.
Ma, per il momento, la sorte sembra accanirsi contro di lui: una pattuglia di Carabinieri lo ferma e, insensibile a qualsiasi protesta, gli ordina di rientrare a casa.
Naturalmente, dopo essere rientrato a Roma, Enrico smuove mari e monti per tornare al fronte, finché le sue insistenti e infuocate petizioni colpiscono nientemeno che il Duca d’Aosta, il quale ne autorizza personalmente l’arruolamento, benché sempre come volontario civile.
Dopo un breve periodo presso la Brigata Acqui, riesce ad entrare nel 3° Battaglione Bersaglieri Ciclisti, dove si fa a tal punto apprezzare e stimare da tutti, tanto che nell’aprile 1916, senza alcuna formalità burocratica, il comandante Maggiore Rizzini gli consegna l’elmetto piumato e le stellette.
Tutto l’impegno profuso e gli sforzi fatti per arrivare a vestire la divisa del Regio Esercito, non serviranno altro che a consegnare Enrico Toti alla sua sorte, perché, in effetti, un uomo come lui non avrebbe potuto sopravvivere alla guerra, dato che il ruolo di vecchio reduce perso nei ricordi non è fatto per gli Eroi: il loro unico destino è diventare leggenda.
Il 6 agosto 1916, dopo che un terrificante bombardamento ha scaricato sulle linee austroungariche tonnellate di ferro e di fuoco, le fanterie italiane scattano all’assalto da Tolmino al mare, il che significa su tutto il fronte Carsico: è l’inizio della Sesta Battaglia dell’Isonzo.
Tra coloro che sono chiamati a compiere quella terribile, impensabile, quasi suicida corsa allo scoperto della “terra di nessuno”, verso l’antistante trincea nemica, vi è anche Enrico Toti, con i suoi commilitoni del Terzo Battaglione Bersaglieri Ciclisti.
La battaglia si concluderà vittoriosamente per le armi italiane, alle quali riuscirà la conquista di Gorizia, il primo vero risultato dopo più di un anno di inutili massacri sulle pietraie carsiche.
Enrico Toti non sarà però tra coloro che entreranno a Gorizia.
La sua definitiva trasfigurazione da uomo a Eroe si compirà proprio il 6 agosto del 1916, sulle pendici di quota 85, una bassa collina a est di Monfalcone.
Quando il Battaglione Ciclisti e due battaglioni di fanteria ricevono l’ordine di conquistare la quota, anche Enrico, senza alcuna esitazione, esce dalla trincea e inizia a saltellare sulla stampella, stringendo il fucile con la destra.
Fatti pochi passi, viene colpito una prima volta, alla gamba, ma questo non gli impedisce di continuare a lanciare bombe a mano verso il nemico; la ferita e la menomazione gli rendono impossibile compiere il movimento di lancio, senza levarsi con tutto il busto, che rimane quindi esposto al tiro…
Una seconda pallottola lo colpisce, stavolta al petto ed egli si abbatte al suolo; ma ancora non basta, perché, con enorme sforzo, Enrico si risolleva per la terza volta e, gridando in romanesco “Nun moro io!!!”, scaglia la stampella verso il nemico e riceve la terza, fatale pallottola, che lo colpisce in piena fronte.
La medaglia al valor militare
L’eco delle sue gesta commuoverà profondamente il suo mentore, il Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, il quale scriverà “Onorare Enrico Toti, significa onorare il popolo italiano”; anche il Re Vittorio Emanuele III riterrà di aderire all’invito del Duca d’Aosta e concederà ad Enrico Toti la Medaglia d’Oro al Valor Militare, motu proprio, ovvero per sua autonoma decisione, senza previa proposta proveniente dall’ufficiale comandante del reparto al quale apparteneva il caduto.
Quella di Enrico Toti è una storia esemplare, nella quale eroismo, coraggio e forza d’animo si fondono in un tutt’uno inscindibile ed è un vero peccato che non la si insegni più nelle scuole, in ossequio al discutibile principio per cui di guerra non si deve più parlare…
Quando – giustamente – esaltiamo le gesta sportive di persone coraggiose e indomite come la nostra Beatrice “Bebe” Vio o Alex Zanardi, non sarebbe male se ci ricordassimo per un istante di un omino, davvero “diversamente abile”, che volle superare il proprio handicap, non per salire sul gradino più alto di un podio, ma per guadagnarsi il diritto a morire per la Patria.